Vado ad aprir le danze ma non il sipario.
Sarà un téte a téte tra cuore e cervello, sperando non diventi un duello al primo sangue.
Chiariamo una cosa: non è propriamente vero che io questa cosa la voglia affrontare; anzi già sento la piccola Nina in preda all’ansia che non riesce più a respirare bene.
È che mi ci sento costretta da un impellente sentimento centrifugo di inutilità.
Voglio dire, nella cura maniacale dei miei spazi vitali, nell’innata necessità di ripulire qualcosa che non sia solo materica polvere asmatica, seppur avendoci per una vita girato intorno con il mocio delle tecniche pseudo risolutive, lo scatolone imballato dei desideri e dei talenti è diventato ormai troppo ingombrante e liso per ignorarlo ancora a lungo.
Fatto in fretta troppi anni fa, non so neppure più di preciso cosa contiene. Potrei pensare a qualche sorpresa in fondo, perchè no. Qualcosa di dimenticato, che dopo tanto tempo di oblio rischia di diventare inesistente.
O forse c’è meno di quanto sospetti, una sopravvalutazione presuntuosa a suo tempo, un largo auto riferimento improprio, una supposta lucidità infida.
Eppure titubo ad aprirlo.
Ho paura a dare un nome a ciò che potrei trovarvici. Temo le definizioni che diventano definitive, che segnano confini e quindi divisioni. Che imprimono marchi più o meno accettabili.
Temo in fondo una profonda mancanza di saggezza, una sordità inequivocabile alla vocazione, una codarda fuga all’indietro, per cecità nel guardare avanti.
E quindi: sorda muta cieca e paralizzata del terrore di fare un passo in avanti, lo posso anche capire che dentro ci sia un pò di disagio ad affrontare questa cosa….
E infine cosa farne di ciò che troverò, sia esso poco o tanto, giusto o sbagliato, scontato o riscoperto?
La dualità parte all’attacco, tra sottili accuse di incapacità, e volatili generiche scuse sentimentali.
Piccole scaramucce iniziali, suvvia. Un promettente profumo di ciò che sarà?
Mi domando attonita se io saprei accettare un miracolo. Non riprodurlo o invocarlo, ma riconoscerlo e accettarlo. Non so quale di queste due cose sia più difficile. Riconoscerlo: non sono in grado di apprezzare il fatto di essere viva, non riesco a comprendere la complessa funzionalità del mio corpo, a malapena mi accorgo della grandiosità della Natura quando ci sono dentro, spesso non sono riconoscente per quello che ho, e ancor meno per ciò che sono. Eppure tutto questo potrebbe sicuramente essere definito “miracolo”: la quotidiana meraviglia del vivere, così sottovalutata e sommersa dalle rumorose lamentele della mente. Quindi a pensarci bene il compimento miracoloso della vita è sotto gli occhi di tutti ma rimane misconosciuto. Se non riesco a comprendere che già essere vivi qui e ora è un miracolo, cosa dovrei aspettarmi per riconoscere un evento miracoloso? Forse quello che biblicamente si indica come un avvenimento strabiliante, eccezionale, al di fuori del possibilmente umano. E quindi: ciechi che vedono, muti che parlano, sordi che odono, storpi che camminano? Guarigioni inspiegabili? Beh forse questo può essere accettabile, in fondo la scienza è anche sopravvalutata. In realtà l’ignoranza, mia per prima, su cosa si possa definire miracolo è grande. In generale non sappiamo bene definirlo ma nel profondo non smettiamo mai sicuramente di richiederlo…Qualcosa di futuro che ci salverà in corner, che metterà tutto a posto sollevandoci da ogni problema… Questa sì la definirei pura e semplice illusione! Qualcosa che sconfina nella speranza senza fine, bella storia di consolazione prima della nanna, in pratica un pollice da succhiare nei momenti bui, con la sottile e strisciante e latente certezza che tanto non si compirà mai… E qualora si compisse, sapremmo accettare un tale repentino drastico cambiamento a mutare la nostra esistenza, consapevoli inoltre di esserne degni? Sicura proprio di volerlo questo miracolo? Perché, dopo, tutto muta, non si torna indietro a prima, è qualcosa di totalmente nuovo, senza mediazione né rateizzazione. Una situazione estrema si potrebbe dire, in qualsiasi senso. Una rivoluzione positiva, si potrebbe pensare, ma che non aspetta i tuoi comodi o rispetta i tuoi tempi. C’è o non c’è, e in entrambi i casi devi fare i conti con ciò che sei o pensavi di essere. Senza ripensamenti o senso di colpa o di indegnità. Non è così scontato come potrebbe sembrare subito. La mente umana è molto contorta, nodosa e legnosa come un albero di ulivo di cinquecento anni. Non si sa cosa celi ogni nodo nel suo pugno stretto e aprirlo potrebbe essere molto difficile complesso e doloroso.
E nella richiesta, siamo forse certi che ciò che domandiamo sia per il nostro massimo bene?
No? Allora che fare, affidarci ad un divino “altro” onnisciente e lungimirante al di sopra delle parti che decida per noi? Una pratica da passare al tribunale del giusto/sbagliato - buono/cattivo? Approvato, archiviato, respinto?
Allora cos’è la fede? Un pò invidio chi ne ha il dono, infatti non sono sicura che possa essere sufficiente decidere di averla, scegliere volontariamente di credere in qualcosa ed è fatta.
Perchè allora anche la fede può essere considerata giusta o sbagliata, con delle conseguenze anche pesanti. Aver fede in sè può essere il più grande atto di coraggio oppure il più alto grado di stoltezza. Se ne possono vedere gli effetti ma sempre solo in seguito, anche qui c’è il futuro di mezzo. Anche qui c’è necessità di una scelta, consapevole o meno. Invece se è stata donata, allora dovrebbe trattarsi di un elemento puro e inattaccabile, un mistero insolubile insondabile. Ma ci si potrebbe trovare a pensare, come nelle disgrazie : ma perchè proprio a me questa cosa così grande e ingestibile, fuori da ogni schema? Persino un dono in fondo potrebbe essere rifiutato…
La fede si potrebbe trasformare in un bel programma di computer che tutto giustifica nei suoi bordi, riducendo il resto a perfetta insignificanza. Alla fine a noi umani rimane il libero arbitrio per comandare il gioco, con tutti i rischi relativi, pur sapendo che invece con la fede sarebbe come avere tutti i quattro i jolly in mano…
La mente non può accettare la fede, sono fatte di materia diversa, c’è incompatibilità, forse un’intolleranza di base. La fede vera non può che essere ospitata in un cuore che batte libero. Credo che sia una cosa rara. Purtroppo non mi appartiene. Ancora, forse.
di Cristina Vignato
Anima Edizioni
È il racconto del viaggio dell’autrice verso la sua conoscenza dei Registri Akashici. La sua esperienza apre alla possibilità per tutti di entrare in comunicazione con la frequenza vibrazionale dell’Akasha, che permette un rapporto diretto con la dimensione spirituale.
La realtà dei Registri ha una sua qualità specifica, pur nella sua multidimensionalità che rende complesso l’approccio mentale alla sua comprensione. Il merito di questo libro, presentato in modo semplice e scorrevole, è quello di essere stato scritto col cuore e quindi facilmente fruibile da chiunque sia disponibile non solo a porre domande, ma anche a permettere all’energia guaritrice presente nell’Akasha di agire nel profondo.
Utile per ricordarci che siamo noi i responsabili della nostra vita spirituale, maturata lungo le ere e le vite vissute, da vivere però nel momento presente. Personalmente avrei apprezzato qualche indicazione didattica in più sull’utilizzo pratico dei Registri.
Esco dall’auto avvolta da una nuvola strillante di pensieri e come un pugno in viso sento dalle narici risalire un odore antico e umido. Sciocca che sono, è arrivato l’autunno e nemmeno me ne sono accorta, nel turbine asfittico delle esigenze quotidiane. Complice un caldo che pare senza scadenza, non ho nemmeno alzato gli occhi ad osservare chi ne sa di gran lunga più di me riguardo le stagioni; eppure non posso fare a meno di riconoscere i fratelli alberi come miei maestri, loro conoscono la vita e la morte a fondo, nelle viscere dei loro cunicoli linfatici. Sono esseri fedeli a loro stessi e a madre natura quanto noi esseri umani non possiamo neppure lontanamente immaginare.
Inspiro a fondo il profumo di questo cambiamento, lo lascio scendere fino nella pancia, fino al tiepido nido uterino che ben sa, ogni mese, che vuol dire sfiorire per poi sbocciare nuovamente. Accomunati dalla potenza della vitalità e dall’offerta protettiva alla nascita, utero e radici arboree affondano nell’humus terreno la loro forza, estraggono nutrimento dalla materia buia e grassa dei principi naturali che trasformano in essenza primordiale di vita. Qualcosa deve sacrificarsi prima però, qualcosa di sé deve compiere un atto sacro di disfacimento e scioglimento per permettere più tardi una nuova venuta al mondo. Senza paura.
Girandola di foglie secche
Mi è sempre piaciuto il primo avvento d’autunno, quel tempo sfilacciato tra fine estate e drastico cambio dell’ora legale, dopo il quale ciò che rimane é solo la sensazione prevalente del buio isolante.
La luce si fa dolce e serenamente disposta a splendidi tramonti, appagando gli occhi prima che diventino affamati ai raggi fini del sole invernale. I colori scaldano le membra ancora di più del residuo calore nei pomeriggi assolati che si vanno assottigliando. La bellezza della natura sembra non finire mai, mutando solo sfumature e accenti, in forme leggere che si lasciano trasportare in giro involontariamente dal vento o attirare dalla forza imperiosa della gravità verso il suolo a farsene coperta multicolore. Il profumo secco del fogliame e quello umido del terreno si uniscono inequivocabilmente e inebriano lo spettatore attento all’attimo infinito...E poi...
Sentore di finte sigarette arrotolate di carta sottile con tabacco di foglie di pioppo, per sentirsi grandi come papà...Reminiscenze di ultimi compiti fatti di sfuggita per insipidi ritorni in classe... Ricordi di vendemmie vocianti e appiccicose di mosto, faticose maratone di raccolte fruttuose, con le unghie nere e la stanchezza soddisfatta...
Poi le prime nebbie, la sorpresa di mattine sempre più fredde, le castagne dei Santi, l’oblio dell’inverno che si avvicina, gli ultimi tempi per star fuori dalla tana a godersi il cielo chiaro....
Ancora una volta la Natura si fa maestra donando il meglio di sé in ogni momento: che invito prezioso al cuore, a che sia sempre aperto ad ogni stagione della propria vita!
Geoffrey e Linda Hoppe
Ed. Stazione Celeste
Memorie di un Maestro
Gli autori canalizzano da anni Adamus Saint-Germain e propongono venti racconti che sono tante piccole gemme di saggezza conquistata. I dubbi, i momenti di difficoltà, i limiti sul percorso di crescita spirituale che tutti prima o poi affrontano vengono sciolti facilmente tra le pieghe di queste storie molto umane di ricerca di consapevolezza. Scaldano il cuore nei momenti difficili e fanno sentire meno soli. Il Maestro Saint-Germain ci accompagna con dolcezza a riconoscere l’energia dell’Io sono della nostra maestria. Aspettiamo altri racconti presto...
Controvento
Sto controvento, lascio che l’intensità dell’aria faccia pressione sulla mia carne, cercando di spingere via i miei corpi sottili, staccandoli uno ad uno, leggeri a fluire lontani da me.
Sento il vigore del fresco penetrante rigenerare le cellule epidermiche. Sono contenta perchè mi sento viva. Il contrasto paradossalmente mi solleva e alleggerisce il mio vissuto, oltre ai vestiti. Scorre il vento su di me, mentre sorrido della sua forza che è la mia, quella della mia anima selvaggia, che si sente libera dalle catene dei doveri, dalla mucillagine dell’ipocrisia, dell’olezzo della falsità.
Prepotente e volitiva ogni raffica sconquassa i miei pensieri, li porta finalmente lontano, mi lascia godere del mio solo corpo, robusto infine di vitalità. Veemenza e grazia energica si fanno gioco un pochino della forza di gravità e permettono ad oggetti, altrimenti inermi, di volare.
Se chiudo gli occhi e mi lascio trasportare dall’impeto delle folate anche io mi sento volare, come quando ero bambina e pensavo che sarebbe bastato un balzo e il vento mi avrebbe sorretto nel cielo.
Ancora ci credo, nel fondo del cuore, che sia possibile, ancora mi aspetto che una corrente d’aria mi sollevi e mi porti via di qui. Finalmente.
Paulo Coelho
Ed. La nave di Teseo
Il cammino dell'arco
Dopo il “Manuale del Guerriero della Luce”, Coelho ripropone il modello del testo didascalico, in questo caso con l’aggiunta delle illustrazioni dell’artista Niemann. Presentate come insegnamento di un vecchio arciere e un giovane allievo desideroso di imparare l’arte del tiro con l’arco, vogliono essere lezioni universali di vita, attuabili in ogni ambito esistenziale. Potrebbero essere perle di conoscenza, in realtà personalmente le ho trovate alle volte noiose, alle volte poco comprensibili. Lo spessore dell’opera mi pare piuttosto distante dal Manuale sopracitato, il coinvolgimento più difficile perchè percepisco la presenza di meno ispirazione e più elucubrazione. C’è la sensazione che si tratti più che altro di una operazione commerciale sulla scia della fama dell’autore. Esteticamente elegante può essere un regalo per fare bella figura con gli inesperti del settore.
Non voglio sembrare cinica. Siamo in periodo natalizio, dobbiamo tutti fare i buoni. Ma ecco nonostante la forzata atmosfera festosa, uno strato di frustrazione mi si muove in sottofondo. Spendiamo il nostro tempo correndo tra i negozi, ci affanniamo ad accaparrarci regali grandi e piccoli per adulti, bambini d’età e infanti mai cresciuti. E poi il cibo, che straborda dalle nostre tavole alle nostre pance, senza riuscire però a sedare un intimo vuoto vorace, cupo e ululante. Quel buco profondo che abbiamo in fondo al petto, che è sete inestinguibile di vita, che è fame feroce d’amore.
Una vocina sottile ci parla in sottofondo ogni giorno dell’anno, per aumentare di volume allo sfogliarsi del calendario dell’Avvento, fino a giungere al 24 dicembre in piena espansione di decibel, infine all’apoteosi del fatidico Natale, nel segreto tentativo di spaccare i bicchieri di cristallo pronti per il brindisi beneaugurante. Il suono si abbassa lentamente allo scorrere delle festività, con un subitaneo rialzo quasi febbrile al momento del capodanno, perchè altrimenti rischiererebbe di non farsi sentire tutto l’anno.
C’è questa eco che rimbomba tra le pareti del torace: “ Voglio essere amato, qualcuno mi dica che sono amato; oggi in questo giorno di felicità obbligata, di bontà prescritta dal galateo, di carità inculcata dal catechismo della domenica mattina. Dimostratemi che sono buono e degno di essere amato e riempitemi di doni, complimenti, attenzioni, soddisfazioni, emozioni, ringraziamenti. Ecco, io oggi cerco di fare il bravo, chiedo agli altri di fare i bravi con me, per favore, fatemi sentire amato dall’Altro”.
Dicono che in questo giorno di Natale un bambino sia nato per portare l’amore a tutta l’umanità.
Mai profezia sarebbe risultata più giusta, più veritiera sui desideri profondi dell’animo umano. Se non fosse che l’amore risiede già nei cuori di ciascuno; solo, pare più facile cercarlo fuori, dove non può essere davvero incontrato, piuttosto che cercarlo e scoprirlo dentro, piccola fiammella perenne in attesa di divampare ed essere condivisa. Ma credo non ci sia sfida più grande che scoprirsi in grado di amarsi profondamente e poi di amare. Alla fine siamo noi che dovremmo nascere e rinascere in quella grotta tra l’asinello e il bue. E non solo il 25 dicembre.
Tra l’ultimo giorno dell’anno e il primo di quello successivo non trascorre che un secondo, eppure proprio lì sono contenuti tutti quelli dei 365 giorni già trascorsi. La mia pigra mente matematica mi impedisce di fare il calcolo di quanti secondi corrispondano a 365 giorni. Una quantità impressionante comunque. Ogni secondo è vita spesa, senza ritorno, andata, decisa, compiuta. Non so contare quanti respiri emessi, repressi, trattenuti, svuotati; quanti battiti di ciglia asciutti e quanti bagnati, quanti sospesi nel vuoto. E la montagna infinita di pensieri, molti, tanti, troppi, decisamente in eccesso esponenziale. Poi l’altissima marea nera di emozioni, a coprire ogni spiaggia o lido o approdo sul mio corpo, a lasciare segni che forse solo il tempo, pietoso compagno, senza fretta potrà ripulire o quantomeno attenuare.
Nell’ultima frazione del conto alla rovescia, tra un’alzata augurale di calici e una doverosa smaccata allegria, si chiude un anno, nome collettivo e cumulativo di esperienze, speranze, sofferenza, attesa, frustrazione, ira. Tutto ciò che c’è stato, tutto ciò che è passato e tutto ciò che è rimasto. Tutto ciò da cui poter ripartire con la lezione acquisita, il cuore fuori dal ristagno, la pena finalmente scontata. Avanti, avanti, avanti, che nient’altro si può fare, diretti verso altri respiri e battiti di ciglia e che siano sani, pieni, compresi e comprensivi, abbaglianti di energia, questa volta. Che sopra ogni altra cosa, questa volta, ci sia la gioia ad accompagnare lungo il cammino.
Ascolta. Ti parlo da sempre, da quando il mio battito solo riempiva il tuo tempo sereno.
Ascoltami nel movimento di risacca del tuo respiro:
Io ci sono. Io sono qui.
E tu in quale bellissima o disastrosa illusione sei rimasto impigliato?
Galoppano i destrieri che sono i tuoi desideri, corrono lontano da te, e tu li lasci fuggire via come un nugolo di bambini vocianti all’ultimo giorno di scuola. Li osservi allontanarsi, convinto che tanto dovranno tornare da te. Quindi li lasci andare osservandoli con una piccola malinconia bianca nella gola blu.
La verità è che sei sollevato che se ne siano andati, non dovrai più badare a loro, non cercherai di imporgli un po' di disciplinata attenzione nel loro tentativo di esprimersi in modo corretto.
Ora ti senti libero, per qualche tempo, di pensare leggero, di permetterti un lieve sbandamento di chi si ritrova all’aria aperta dopo tanto tempo passato in sala di attesa.
Non vuoi pensare che i tuoi desideri ti mancheranno, ti rifiuti proprio di pensare; tutta quella fatica sottile nella tua testa, tutta quella sotterranea tensione tra le tue spalle, quel giro di vite nella pancia ad ogni ricorrenza.
È tutto scivolato via.
Annusi il sole sul tuo viso da segugio al termine della caccia, soddisfatto e stanco, in attesa di una ricompensa liquida e di una ruvida carezza.
Sicuro che sia meglio così?
Sicuro che vada tutto bene?
Sicuro che sia questo quello che vuoi?
Sento un lieve affanno farsi largo tra i tuoi polmoni.
Certo non sei sicuro di nulla, quindi….
Gemiti
Ansimi
E realizzi.
Hai disperso i tuoi desideri lungo le vie del nulla pensando che sarebbe stato più semplice, così vivere. Che la piccola angoscia di sentirsi vivo si sarebbe quietata. Che il resto, tutto il resto, semplicemente si sarebbe assestato di conseguenza su questa nuova faglia terrestre. Che in un automatico meccanismo di difesa tutto si sarebbe messo a posto all’allontanarsi del pericolo.
Un fantomatico benedetto oblio liberatorio. Non li vedo più, quindi non ci sono più.
Che grande idea! Degna del più grande pusillanime di tutti i tempi. Tu.
Così nel macrocosmo come nel microcosmo. Prendiamo il nostro corpo come unità e consideriamo gli organi che lo costituiscono come parti specifiche, unità a loro volta per la molteplicità delle cellule. Per ogni livello avremo un macrocosmo che rispecchia un microcosmo. Così i pianeti del sistema solare sono parti di una unità, la quale concorre come particolarità alla formazione della via Lattea. E così questa insieme ad altre galassie forma quello che definiamo universo conosciuto. Il modello proposto rimane sostanzialmente lo stesso. Quindi potremmo sostenere che osservando la vita cellulare si può ricavare lo stesso andamento fenomenologico per lo studio delle galassie?
Se è così, se tutto si può rappresentare attraverso lo studio biologico delle cellule, allora dovremmo rivedere pienamente la rappresentazione di noi stessi in quanto umanità.
Se ogni persona può essere considerata una cellula facente parte dell’unità definita umanità, allora l’individualismo, la competizione e la legge del più forte non sono più sostenibili.
L’evoluzione passerebbe attraverso la collaborazione e la comunicazione tra le singole parti per concentrarsi sull’unico bene comune. Non sopravvivenza, ma benessere, funzionalità, integrità, coesione. La consapevolezza di appartenere ad una manifestazione unica più grande è la sola salvezza per l’essere umano, inteso come espressione di singola specificità e come totalità di persone; non ci può essere più differenza.
Durante il tempo in cui sono rimasta col naso in sù ad osservare l’eclissi, mi sono lasciata investire dalla sensazione di qualcosa di profondamente sacro, del mistero di un universo in cui spesso non ci riconosciamo. Eppure apparteniamo a questa realtà galattica allo stesso modo, noi esseri umani, le stelle, il vuoto che c’è in mezzo, la materia dei pianeti, indipendentemente dallo spazio che ci divide. È stupefacente pensare che abbiamo la stessa provenienza, che siamo fatti della stessa sostanza, che avremo un lontanissimo destino comune. Ci si può sentire infinitamente piccoli, ma anche fortemente connessi nel marasma di questo mistero. È anche dolcemente consolante pensare che, in qualsiasi forma si manifesti, la stessa forza ci nutra, cosicché non ci permetta di sentirci mai veramente soli, perchè gli stessi atomi ci compongono tutti.
Cado quale fiocco di neve
veloce verso
I miei simili a terra già arrivati.
Dalla grande nuvola bianca
Mi sono staccato d’impulso
E, solo, mi sono affidato al vento capriccioso
Che mi ha fatto danzare a suo desiderio.
Quando, infine, leggero e fragile
ai miei fratelli mi riunisco,
insieme, andiamo a esprimerci in neve,
Che, come grande madre,
Tutto abbraccia e tutto livella,
Che tanto copre e tanto nutre.
Al momento opportuno essa si scioglierà da sé
E noi, figli e creatori,
Al suo contempo,
Ci lasceremo trasmutare in nuova forma
Allora, ditemi, io ho fatto la brava bambina, ho registrato tutto ciò che inconsciamente mi avete dettato, vi sono stata fedele e ho raccolto la vostra eredità mozzata, e adesso, ora che percepisco il vuoto intorno a me, che mi sento persa e tendo la mano, verrò ricompensata? Adesso mi darete gratuitamente quel bene che ho agognato così tanto, mi riconoscerete infine per quello che veramente sono? Mi lascerete libera di essere me stessa perdonandomi se ciò non corrisponderà alle vostre aspettative? Pur nella vostra fragilità, mi darete un sostegno affettuoso senza condizioni?
A suo tempo mi diceste che, se pestavo i piedi per terra, ero capricciosa; che, se dicevo di no, ero cattiva; che, se mi rifiutavo di fare cosa mi chiedevate, vi facevo piangere; che, se raccontavo la mia verità, ero sciocca....
Vi ho lasciato imprigionarmi nelle buone intenzioni, mettermi il bavaglio delle convenienze, coprirmi gli occhi di ogni possibile paura di giudizio. Ma io volevo solo essere amata, volevo che vedeste la mia bellezza diversa, la mia intensa complessità, come una pietra preziosa grezza che aspetta di essere burattata da mani sapienti e amorevoli. Voi pensavate al tornaconto della mia utilità nella vostra vecchiaia e intanto mi avete nascosto alla spontaneità e alla luce della fanciullezza libera, per coltivare invece, su quel terreno fertile e innocente, i semi dell’ipocrisia e degli obblighi. Ora ne sto raccogliendo dei frutti amari e sterili, ora comprendo che avendo rinunciato alla piccola me ribelle per amore vostro, ho adombrato la mia chioma di giovane albero splendente, ho rinchiuso i miei istinti vitali in una cantina senza finestra. Ci sono ancora così abituata che non riesco nemmeno più a sentirne gli spazi angusti, che siano nel mio corpo o nella mia mente. Sono cresciuta credendo di essere libera di scegliere quando invece tutto mi era stato preordinato, poi ho supposto invano di essere riuscita a svincolarmi con vigore dalle leggi famigliari sottintese, a smarcarmi dai limiti di mentalità ristrette. E invece adesso quasi sono convinta che nessuna grazia potesse esserci come mia ricompensa all’obbedienza per amore. Che l’unica cosa di vero valore sarebbe stata, invece, accettare ciò che ero, che l’unico vero premio in ballo sarebbe stato vivere e farne esperienza, semplicemente. Mi accorgo di non aver compiuto l’unico vero destino degno di un essere umano, godere dell’esistenza, troppo impegnata com’ero a risultare brava e buona agli occhi di chi non riusciva a vedermi, contagiata dal vostro timore osmotico nei confronti del mondo. Io avevo bisogno di ricevere per svilupparmi pienamente, voi mi avete convinta che il dare doveroso mi appartenesse in quanto figlia e femmina, a costo di dimenticarmi di me: questo è ciò che voi stessi avevate a vostra volta imparato. Voi non potevate forse fare diversamente, ma io sì e non ne ho avuto il coraggio o la forza di andare oltre a voi e salutarvi da lontano. In questo momento mi sento povera di vita intensa, miserabile di gioie estese, una galeotta che ha contemplato la sua pena eppure ha paura di essere rilasciata e trovarsi spersa, fuori dopo tanto, troppo tempo. Vorrei dirvi che non importa anche se mi dispiace, che tutto va bene lo stesso, ora che siete anziani e bisognosi, ma non ci riesco e al momento posso solo concentrare la luce su di me e cercare di amarmi nella bambina che ancora sono. Ora basta, vi voglio bene, ma vi restituisco ciò che è vostro. Non è contro di voi, è per me, finalmente.
Hai presente quel momento di panico assoluto quando il respiro si fa piccolino e singhiozzante, il diaframma si trasforma in un freno a mano tirato? Quella volta che il cervello sinistro ha dichiarato sciopero per eccesso di straordinario (mai pagato peraltro) e quello destro si è trovato libero di ululare tutta la sua pulsione repressa? Gli attimi in cui non sai bene se sei troppo vivo o ti avvicini velocemente all’essere morto, senza testamento pure? Quei minuti d’eternità nei quali i muri intorno sembrano accartocciarsi su di te e il pavimento diventare uno strato di gomma incapace di sostenerti? Inutile dirti: respira, ragiona, stai calma...
Calma un c...o...qualcuno mi faccia la cortesia di prosciugarmi velocemente la mente, risucchiata dove vi pare, basta che stia zitta un secondo, un solo secondo per riuscire a infilare un bandolo di salvezza tra un terrore enorme e una paura incontrollata....qualcuno, qualcosa, magari con la Q maiuscola, mi estirpi queste emozioni in turbo sul giro della morte, chiami i vigili del fuoco interiore, che sarà pure sacro, ma c...o se te lo fa pagare caro il suo show.
Forse è vero che si tratta del dio Pan che ha deciso di farsi sentire, ma dov’è la concessione del suo permesso di libera manifestazione, che lo straccio immantinentemente? Caro Pan, avvertimi un attimo prima, che magari andiamo a berci qualcosa insieme nonostante io sia astemia, e ci possiamo anche divertire un sacco a ridere come deficienti facendoci il solletico sotto le ascelle in giro per strada, o prendere a calci mucchi di foglie secche appena raccolte dagli spazzini, stracciare in coriandoli tutta la carta igienica che possiamo trovare in giro, srotolarci in prati umidi nelle notti di luna piena, fare a gara alle parolaccia più schifosamente nuova, spaccare bottiglie vuote contro i muri, urlare a squarciagola in macchina i vaffan... più grandi al mondo intero; il meglio del meglio del peggio che preferisci, senza danni altrui. Ma fammi tirare fuori tutto questo sapendo che lo sto facendo e lo voglio fare.
Non voglio più sentirmi sopravvissuta al terremoto delle emozioni in gita senza professori, non voglio più cadere a terra stordita dalla forza del tornado selvaggio del mio inconscio inascoltato. Senti Pan, facciamo un patto io e te...
Ci sono momenti intensamente freddi, di sentimenti e umori, che bruciano gelando come azoto liquido. E ti senti improvvisamente anestetizzato.
Ti ricordi quando, da bambino, subito dopo una botta presa cadendo dalla bicicletta, non ti accorgevi neppure del dolore subitaneo perchè eri intorpidito dallo stupore dell’accaduto, ma dopo poco, oh si che la ferita pulsava forte e fremeva persino nelle orecchie? Ecco, questo è proprio ciò che vuoi evitare ora. Quindi provi a scappare al risveglio dallo choc. Come fare per non trovarsi faccia a faccia col temuto frastuono della sofferenza in un crescendo cacofonico? Beh, ci sono diverse opzioni. Potresti spararti una dose severa ma imprecisa di psicofarmaci; oppure una bella quantità di droga a piacere, di quella che ti lascia più stupefatto. Potresti inzuppati di alcool da fare invidia a un babà al rum, lasciandoti divorare i neuroni al rintocco dei bicchieri vuoti; o anche strafogarti di cibo, zuccheri preferibilmente, tanto per addolcire una bocca perfettamente amareggiata. Spellarti le nocche a forza di pugni sul muro, cosicchè questo nuovo male superi l’altro, chiodo scaccia chiodo a mani nude. Potresti prendere l’autostrada in contromano a tutta velocità a fari spenti, magari sperando che un altro ponte decida di crollare in quel preciso esatto momento in cui solo tu ci passi sopra.
Oppure potresti decidere che no, tu questa pena ti rifiuti proprio di sentirtela stringere nelle viscere e rimbombare nella corteccia limbica. Che tu hai un’altra opzione: stoccare il tutto nel freezer del subconscio più profondo. A temperature da era glaciale, puoi semplicemente archiviare il fatto e le sue conseguenze direttamente nel polo sud della tua anima. E d’incanto, è come se nulla ti avesse neppure sfiorato, ad una distanza lunare dal sentire ogni effetto collaterale degli eventi. Tutto a posto allora? Come no, basta fare attenzione ai sintomi di un improvviso disgelo, ad ogni incrinatura sulla superficie del ghiaccio, a ogni pericolosa variazione di vibrazione. Perchè ogni afflizione sta lì nascosta e credi di essere al sicuro; ma c’è, si muove e ti chiama, dapprima piano piano poi sempre più ferocemente. E se non gli darai retta ad un certo punto potrebbe riscuotere il pedaggio sbranando la salute del corpo, completamente sfuggito al tuo presunto controllo....allora sì che sentirai tutto quanto ad alta definizione, moltiplicato all’ennesima potenza. Scegli tu: tutto e subito o molto di più dopo? Ardua domanda. La risposta si può scoprire solo vivendo, ciascuno a modo proprio
È profondo il nascondiglio dell’anima, la tana in cui si è rifugiata dopo un dolore subìto sembra fatta apposta per dissuadere ogni coraggioso intento di cercarla. Quando gli inferi sono nascosti dentro a se stessi, così bene mimetizzati da sembrare innocui sfarfallii di ombre, allora il viaggio alla ricerca di sé pare una facile esperienza, esente da possibili squallidi conflitti; si parte all’alba di un desiderio sconosciuto e sottile con bagaglio leggero, e in men che non si dica, ci si ritrova a sprofondare nelle paludi miasmatiche delle paure più profonde, immersi, quasi senza speranza, nella nube tossica della sofferenza arrivata e mai salutata. E quando si è lì, tra la melma più oscura e pesante dei propri giudizi e pregiudizi, non rimane altro che guardare in alto, a cercare un bagliore di luce, un sentore di chiarore, un guizzo di aurora, un tenue rimando di stelle, per riprendere fiato un momento, un altro solo momento di resistenza e poi...
l’abbandono all’annullamento dei sensi, lo sfinimento che supera ogni residuo di timori e remore, l’annegarsi completo senza resistenza all’oblio del vuoto. Anche il respiro diventa sottile, come la lama che si teme stia là ad attenderci, infida.
Accettare di lasciarsi andare al neutro abbraccio della vacuità, perdercisi profondamente dentro per darsi la possibilità di ritrovarsi e magari scoprirsi nuovi: questa potrebbe essere una salvezza impensata, paurosamente rischiosa, eppure forse necessariamente autentica per allinearsi infine alla Verità di ciò che pienamente e finalmente si è destinati ad essere.
Ho letto che la vocazione di ciascuno è precipitata nell’immagine di una ghianda. Che la verità di ogni essere umano risiede proprio lì, nell'immagine in un seme d’albero, commestibile ai porci. O ancora più modestamente, in un minuscolo seme di senape. Che la grande potenzialità progettuale insita nel destino della persona è compressa tutta lì. Le possibilità e infinite varianti delle traiettorie divine sono addensate in un minimo e definito spazio, dove il tempo diventa virtualmente eterno, diluito in un ciclo vitale infinito. Il tesoro tanto ricercato con stoico eroismo, o con illuminata follia nel mondo degli eventi, si nasconde imperturbabile agli occhi voraci di alterità, curiosi di mondo esterno, assetati di secolari risposte senza rispondenza. Dentro, profondamente all’interno, e solo nell’humus zuppo di vita del cuore pulsante, una piccola presenza ci distingue come esseri senzienti, ma terribilmente ignoranti. O solo profondamente smemorati della propria provenienza. Ma se indulgere nella dimenticanza originaria ci impedisce di sbocciare completamente, quale terribile demiurgo avrebbe giocato un tiro così disperante alla sua creatura, da impedirne la gioia della piena manifestazione? A quale scherzo dal sapore sadico ci siamo forse resi disponibili e perché?
Voglio pensare che ci sia un mistero dietro a tutto questo, che il vero scopo sia quello di cercarlo per viverlo, fino in fondo. Il mistero è ciascuno di noi, esattamente per come è fatto, in quelle caratteristiche peculiari che ci rendono unici e insieme pezzi di un mirabile puzzle che non riusciamo a scorgere, chini come siamo a guardare il terreno su cui poggiamo. Perdendoci nel frattempo tutto il bosco di magnifiche querce che ci circonda.
Cammino tra l’erba bagnata, su un prato che mi sono permessa per la prima volta di calpestare. I piedi se ne vanno per conto loro, le gambe ammortizzano automaticamente il dislivello del terreno. Intanto mi guardo intorno: le foglie brillano regali di rugiada, i fiori mostrano le livree scintillanti con grazia. L’odore di verde umido risale dalle narici, mi sveglia le meningi, il glicine mi attira mieloso. Il calore del sole si scontra con l’aria fresca e il miscuglio che ne viene si insinua tra i vestiti e accarezza la pelle. Ronzii, cinguettii, fruscii testimoniano una vitalità risvegliata e una promessa mantenuta di rinnovamento. Respiro a pieni polmoni tutta questa abbondante bellezza. Ci siamo: è tornata primavera
È chiaro: finché non si accetterà profondamente sia la propria essenza femminile sia quella maschile, entrambe presenti indipendentemente dal genere di incarnazione, non si potrà trovare un vero equilibrio nelle relazioni. Fino a che poi, non si permetterà a ciascuna parte di esprimersi per quello che è in pienezza, riconoscendole infine entrambe come unite indissolubilmente, non si troverà pace né dentro né fuori di sé. Quando le si soffoca, per inesperienza nel saperle gestire, per timore del rifiuto altrui, per memorie ancestrali di condanna, si riduce la forza vitale del Tao ad una mediocre sopravvivenza. Ma tutti siamo qui, ora, per aspirare alla completezza della presenza.
Alle volte scopro nei miei pensieri gli echi delle parole dei miei nonni, disperse in frasi ascoltate allora distrattamente, che si trasformano ora in sussurri condizionanti e inaspettati. Sono repliche di paure ancestrali e pesanti, che paiono piccole solo perchè lontane nel tempo e invece sono così profondamente connaturate al vissuto famigliare da essere diventate parte della stessa eredità energetica. Quelle parole spesso se ne stanno in letargo pigramente in qualche anfratto del mio inconscio. Ma basta un poco, un accenno di sfuggita, una sensazione appena tangibile ed ecco che emergono i ricordi archetipici della vittima impregnati nell’albero genealogico. Ed il gioco è fatto: tutta la forza dell’angoscia vissuta dagli antenati torna a galla, come in una bolla di sporcizia in cui sembra inevitabile soffocare. Che fare allora, se non scegliere portare pace a queste accorate richieste di aiuto che sono le memorie transgenerazionali? Ciò che i miei avi hanno vissuto riguarda inevitabilmente anche me. I blocchi emozionali che sono rimasti fissati nella storia famigliare non se ne andranno, altrimenti. Pacificare e pontificare, cioè fare da ponte amorevole tra vivi e trapassati nel momento presente, questo il compito che posso svolgere in quanto discendente per poter essere liberi: loro, io e chi viene dopo di me
Rifletto: mi auguro che nella vita non ci siano né vincitori, né vinti, solo partecipanti. Senza merito dunque? Ma l’autentico valore è eccellere sugli altri o dare il meglio di sé? A me non interessa competere per sentirmi superiore ai perdenti; non ci tengo a affermarmi a scapito di altri. E neppure voglio rischiare di sentirmi addosso il peso di un ipotetico fallimento che non è reale, ma solo manifesta differenza. Preferisco che i benefici delle azioni siano per tutti. Se ciascuno si esprimesse nel modo migliore a prescindere, che grande vantaggio universale ne verrebbe. Sono ingenua o forse illusa? Può darsi, o forse cerco solo di andare oltre al cinismo imperante
Vorrei essere un’anima risvegliata e santa, dispensatrice di consigli illuminati e indicazioni profetiche. Vorrei avere le sicurezze che una fede salda probabilmente garantisce. Vorrei vivere in eterna beatitudine al di sopra delle brutture del mondo.
Ma io non sono questo. Sono solo una piccola coscienza che cerca il suo spazio in una realtà che non le risuona, alla ricerca di un fine ultimo per cui valga la pena impegnarsi a vivere. Al di sotto delle corazze, al di là delle barriere, oltre le maschere, rimango sola con le mie domande e i miei dubbi. E credo che nessun altro esser umano possa darmi le risposte che cerco, quindi smetto di cercare indicazioni per percorsi improbabilmente liberatori, smetto di fidarmi di qualcuno che mi auguro ne sappia più di me. Smetto di aspettarmi l’illuminazione pronta dietro l’angolo, giusto in attesa della mia venuta.
Talenti o meno, ho intime qualità che non riesco a definire, a cui dare un nome, catalogarle o classificarle. E questo forse mi impedisce di esprimerle pienamente in un mondo che vive di etichette e incasellamenti. Come posso ridurre a poche parole un sentire profondo quanto indefinibile? Come posso offrire qualcosa di particolare in una realtà che si nutre di standard da raggiungere e certezze, quando invece dentro mi ritrovo un universo vorticoso e informe?
Quello che so è di non capire ancora dove, di non conoscere il quando, ancora meno il modo, impossibilitata ad avvistare la meta da una cataratta frustrante, che mi impedisce di trovare il bandolo di questa matassa invisibile. Eppure sono sicura che c’è un punto all’orizzonte che mi aspetta, lo sento, mi chiama...
Ho bisogno di fuoco con cui scommettere, di sentire una nuova passione per gli eventi, della spinta ad osare la diversità. Ho bisogno di percepire gli occhi che brillano di commozione felice, di gioia che freme nelle cellule che sanno di essere vive. Ho fame di piccole novità e avventurose scoperte, di grandi sorrisi sgorgati dal cuore, di ricchezza di sentimenti condivisi.
Ho necessità di scambi nutrienti, di presenze affettuose, di bellezza sorprendente. Ho voglia di allegria gratuita e gentilezza da regalare, di canzoni urlate al vento che diventano sussurri nella sera. Desidero sentire l’energia nelle gambe fremente per farle danzare, e il gusto di cibi sconosciuti a stupirmi, e un intimo piacere ad ascoltare le voci incalzanti del giorno. Attendo di dissetarmi nei sensi della natura, riscaldandomi al piacere di percepirmi nel respiro del vento e godendo di ogni singolo raggio di sole o goccia di pioggia che possa trovare lungo il cammino. Aspiro all’arrivo dei momenti che trascorrerò con me stessa, giocando soltanto per puro divertimento a nascondino col mio cuore. E stupirmi di poter essere nuova e ancora più profondamente viva.
C’è odore di pioggia calda e umidità in attesa di scendere a baciare il terreno.
Mentre annuso la polvere che si va bagnando e risuono alla potenza del tuono,
Il vento si modella sul mio corpo e allontana il calore accumulato nel giorno.
Lo spettacolo scrosciante ha inizio e io mi lascio attraversare dagli elementi
Che portano via da me scorie di pensieri e parole.
E mi sento ancora fresca e nuova di fronte al cielo.
Siamo tutti terrorizzati di dover affrontare lo spauracchio del fallimento, in qualsiasi ambito possa trattarsi, come se da questo dipendesse l’intera nostra sorte. Come se questa paura non fosse solo un grande inganno della mente. La costruzione dei ruoli sociali ci ha fatto dimenticare che siamo già degni di ogni cosa per il solo fatto di esserci, qui e ora, vincendo la scommessa dell’incarnazione. Che ci piaccia o meno abbiamo superato l’incognita del concepimento, l’attesa dubbiosa della gestazione, il trauma della nascita, le difficoltà della prima infanzia, il mare uggioso dell’adolescenza e siamo qui, combattenti veri senza bisogno di medaglie e trofei a dimostrazione del nostro valore. Siamo vivi, siamo vita in espressione, chi si crede più grande di lei per stabilire dei meriti?
Stavamo passando in autostrada su un ponte.
Non ho potuto fare a meno di chiedermi se fosse successo a me. Se davanti all’auto improvvisamente si fosse aperta una voragine. Se avessi sentito crollare sotto le ruote il pavimento stradale. Quali sarebbero stati i miei pensieri in quei pochi attimi che precedono lo schianto? Che visioni o emozioni, oltre la sorpresa oltraggiosa di fronte a un evento inimmaginabile? Mi sarei accorta del mio ultimo respiro?
E andando più in profondità, se io dovessi morire adesso, in questo momento, perchè mi colpisce un fulmine, mi cade un vaso in testa da un balcone, un terremoto squarcia la mia casa, qualsiasi cosa si possa esprimere improvvisamente nel decadimento di questa linea temporale, io sarei pronta a non avere paura, io che sostengo di non aver timore del passaggio di realtà chiamato morte? O forse mi sto raccontando solo una grossa balla, sognando in verità una delicata e lontana dipartita su un letto di vecchiaia?
Vorrei morire con la consapevolezza che le esperienze passate non sono state vani tentativi di vivere più o meno bene, ma sono state il miglior gioco che sono riuscita a fare con le carte che avevo in mano. Accettando anche di non poter sapere tutto, avendo permesso a qualcosa di sfuggire al mio controllo. Sarebbe già un bel traguardo per questa incarnazione.
Londra, Oxford Street.
Davanti, dietro e ai lati, una fiumana di persone si sposta sgomitando, senza vedere dove mette i piedi, ognuno con un luogo da raggiungere. Una miriade di individui che riesco ad aggregare in una unica parola: gente. È affascinante osservare tali notevoli diversità, pur nella perfetta unicità del singolo; tante vite che appaiono slegate tra loro, senza osmosi. Presenze dovute alla casualità si potrebbe dire: granelli di sabbia in movimento tra onde di energie sconosciute. Lì, in quel preciso momento, non posso fare a meno di percepire il mio disagevole fastidio di fronte a tale spettacolo umano. Osservo e non me ne sento parte. Comprendo che c’è una nota di fondo stonata in me. Dovrei non sentirmi migliore, dovrei non giudicare chi ho di fronte, ma è uno sforzo che mi condanna all’ipocrisia. I burka, la sciatteria, la ricercatezza alla moda, le divise pretese dai ruoli, il casual, la disibinizione...ogni forma di rappresentazione umana, c’è tutto e il suo contrario. Corpi struscianti vecchi e giovani, eppure anime eterne che si toccano nella folla in pieno isolamento. La sensazione è di trovarmi in un formicaio umano, e anche io sono una formica. Mi strugge pensare che, in un tale contesto, il valore di una persona possa andare affogando nella generalità del mucchio; sembra non contare nulla. Mi colpisce una sensazione straniante di piccolezza. Sono sincera: mi fa paura. Perchè nella massa i princìpi decadono, la logica sfugge, il sentimento profondo non viene registrato. Si respira forte invece l’istinto di sopravvivenza che spinge i passi e limita lo sguardo. Non è rispetto reciproco, è indifferenza reciproca. Non è visione onnicomprensiva, è limite esclusivo. E la cosa più triste è che ci si fa presto l’abitudine.
Poi d’improvviso, una lieve scossa gioiosa mi riporta al momento presente e sento suoni di cimbali e percussioni: Hare Krsna Hare Rama Hare Hare...
Mi torna il sorriso, accolgo la splendida follia degli Arancioni tra indulgente pazienza e infantile letizia, che durano ancora a lungo nel mio cuore. Grazie per avermi guardata negli occhi e aver danzato e cantato con me e per tutti gli altri. Grazie per avermi fatto sentire di nuovo parte di una bella umanità.
Lo ammetto: mi ero persa. Avevo rinchiuso la mia attenzione tra le barriere di un tiepido sopravvivere. Ero in letargia involontaria, schiacciata dalla quantità di esseri umani che mi circondavano.
Avevo perso la bussola della mia presenza, come un esploratore tra i ghiacci del polo Nord. Aspettavo solo che i momenti passassero senza tanto disturbo per arrivare alla fine della giornata, già stanca.
Ti ho percepito nel mio campo visivo solo all’ultimo minuto, non sono riuscita neppure ad adottare le mie solite misure di autodifesa. Ecco davanti a me un piccolo monaco buddista dall’aria gentile e soave, come una brezza leggera sul viso. Senza tante parole, solo gesti accennati che non ho potuto rifiutare. E una parola che ho sottoscritto: peace.
Sono rinvenuta a me stessa guardandoti allontanare mentre avvicinavi altri, dispiaciuta per non essere stata in grado di comunicare di più, per aver perso l’opportunità di conoscere qualcosa del tuo mondo.
Ma mi sono risvegliata a me stessa e chiesta come anch’io potessi fare la differenza in quel contesto così impersonale. Allora ho ricordato cosa sono. Un ponte tra cielo e terra. E così ho fatto: ho richiamato e lasciato consapevolmente che le energie cosmiche mi attraversassero per diffondersi tutte intorno.
Una minuscola cosa, una piccola opportunità, ecco quello potevo farlo. Con il cuore pieno di gratitudine per te, amico silenzioso, che mi hai ridonato speranza.
Distesa sulla spiaggia osservo un cielo azzurrissimo, color pennarello delle elementari, quasi incredibile nella sua smagliante limpidezza. È talmente pieno di sé da saturare tutto l’orizzonte, che viene voglia di toccarlo con le mani. Materico e serico, senza fine agli occhi, spettacolo rinfrancante e nutriente. Poi penso: ma comunque le stelle ci sono, lì dietro. Non le vedo ma ci sono, e assistono lontane alla vicenda di questo pianeta blu e bianco che gira su se stesso. Anche se non posso vederle, nella luce abbagliante del giorno, la loro presenza rimane indubitabile. Solo al buio, allo spegnersi dello splendore solare, si fanno vedere. Bisogna aspettare che l’ombra della sera scenda per non sentirsi soli nell’universo. E lo spettacolo infinito della creazione si manifesta allo scadere della luce. Non è curioso? La luce limita l’ombra, ma anche la visione più grande e il bagliore delle stelle necessita dell’oscurità per farsi osservare e scoprire, tutto fluendo senza giudizio.
Stavo sistemando l’armadio e pensavo che è un po’ come ripercorrere la storia degli ultimi 12 anni circa della mia vita. I vestiti buoni delle feste di famiglia e quelli riciclati, le borse belle ricevute in regalo negli anniversari e quelle a stento sopravvissute all’usura, l’abbigliamento da vacanza, per il troppo caldo e per il molto freddo.... quanti avvenimenti, tanti ricordi, quanta vita passata sotto il ponte del tempo....Abiti messi solo per una occasione importante, quindi ancora più ricchi di significato perchè null’altro poi ne è stato ulteriormente all’altezza.... e vestiti comodi lisi dal piacere dell’uso quotidiano, quasi irrinunciabili. E ancora acquisti impulsivi dettati da aspettative irrealizzate, taglie superate dalle necessità del corpo, il gusto per i colori che è mutato...
Ogni capo segna i passi che ho compiuto per giungere qui ed ora. Riguardando questo sentiero multicolore e multiforme di stoffe e fronzoli, mi rendo conto di quanto sia stata abbondante e movimentata la mia vita finora, anche quando pensavo che non stesse succedendo niente di particolare, in realtà stavo dando valore ai giorni, anche attraverso queste cose, che rimangono comunque espressione di me.
Forse dovrei buttarne via qualcuna, o forse non sono ancora pronta a lasciare andare....
Sapersi staccare come una foglia dal ramo
Saggiamente secca al momento opportuno,
Col gracchiare dei corvi e con l’ombra che avanza;
In lieve planata, senza più opporre resistenza
Al richiamo dolente e imperioso della gravità che danza,
Affidandosi coraggiosamente alla brezza
Dolcemente cullata dalla fresca carezza
Per lasciarsi trasportare senza altra meta apparente
Che un abbraccio voluttuoso con la terra fondente
Verso il disciogliersi della sua forma ormai compiuta
In una diversa sostanza
Per essere materia nuova, altra linfa,
Ma stessa essenza.
Ho partecipato a una festa di piazza. Tanti visi, così distinti per tonalità e forma e così uguali: tutti con due occhi, un naso, una bocca, delle orecchie. Ognuno la propria lingua, il proprio modo di esprimersi e socializzare; ciascuno con lo stesso respiro che entra e esce. Tutte quelle persone hanno cantato con corde vocali simili, ma usate in modo differente, hanno fatto passi di danza tradizionali sulla scala musicale e il ritmo universali. I vestiti avevano arricciature in vita e alle spalle, che venissero da nord o da sud. I disegni geometrici dei ricami si rimandavano l’un l’altro, indifferenti alla loro provenienza geografica, ma con una sola origine archetipica. I Colori primari si rincorrevano sulle bandiere da est a ovest. Le lodi al Creatore avevano suoni diversi con un solo significato ed indirizzo. E davanti al cibo, un’appetito comune e una gran voglia di assaggiare anche quello sconosciuto hanno contagiato tutti. È una storia bellissima quando ci si ritrova insieme come umanità e basta.
Buio, un momento di black-out totale. Un nero vuoto ineguagliabile, senza senso alcuno se non un’assenza ben precisa. Il fiato sospeso, perché la sorpresa è così forte che non c’è il tempo di capire. E una domanda che frulla immediata: allora è così essere ciechi?
Poi arriva una luce abbagliante e con essa il sollievo.
E si capisce quale glorioso, incredibile e micidiale strumento sia la vista.
La maggior parte della vita moderna in fondo passa attraverso gli occhi, acchiappata al volo dallo sguardo, fissata il più delle volte nella memoria, e infine, selezionata, incasellata per immagini prima ancora di dirsi esperita compiutamente. La percezione pare così concentrata negli organi visivi da sovrastare il sentire degli altri sensi. Lo sguardo definisce quindi la realtà circostante, la accarezza, assorbe o respinge, ma a distanza di sicurezza dal corpo, senza permetterle di venirne a contatto. In questo iato la mente si scatena in un uragano di pensieri e connessioni virtuali. E si finisce per rispondere all’esistenza reagendo di ricordi, esperienze passate ed influenze inconsce anziché con la presenza. La visione può diventare allora metro di giudizio, difesa, separazione, discrepanza, lontananza, rifiuto.
Al contempo, la gioia di poter vedere l’altro, l’atto stesso di notare ancora stupiti il mondo, di guardare con curiosità qualcosa mantiene invece il cuore bambino; permette di commuoversi di fronte a un paesaggio intenso, di riconoscere volti cari e colori ammaliatori, di vivere la bellezza.
E alla fine osservarsi in uno specchio senza potersi raccontare altre bugie.
Grazie di esserci, occhi.
Scorrevo lo sguardo tra le tombe al cimitero e pensavo a quanta vita fosse passata attraverso tutte quelle persone, quali storie, ordinarie o particolari risultassero annotate sul diario dell’esistenza. Ognuna forse un battito di ciglia per l’eterno divenire, ma per il singolo individuo un lungo susseguirsi di giorni ed esperienze, di cose ed emozioni, sensazioni, avvenimenti e sentimenti. Mi sono chiesta se tutto questo patrimonio di vicende fosse andato perso al momento del trapasso, se tutti questi episodi fossero stati portato via allo spegnersi della mente, annullati come una serie tv con abbonamento scaduto. Click e via. Certo, possono restare i ricordi nella memoria di chi è rimasto, anche documenti, scritti e foto. E ancora: capitali valutari a rendita o retaggi karmici tramandati di generazione in generazione, aneddoti da raccontare in famiglia, eredità da condividere bene o male, cimeli da dimenticare nei cassetti, scartoffie da visionare per gli uffici.
Ma quelle energie lì, proprio quei momenti vissuti, l’intensità degli attimi inspirati e poi rilasciati; quelle piccole gioie e sofferte delusioni, le dolorose scelte e le felici sorprese; tutte le variabili possibili dell’espressione umana che fine avranno fatto alla scadenza del contratto sottoscritto tra gli umani e sorella morte?
Mi piace pensare che le tracce di tutti quegli episodi siano rimaste depositate nella matrice dell’etere, che quelle impronte siano state custodite nell’archivio infinito dello spazio, che va così riempiendosi di vita. Penso che tutto sia stato registrato nell’inconscio collettivo, quindi salvato nel campo morfico di questa la realtà, in modo imparziale e senza giudizio, per avvolgersi nella spirale evolutiva del tempo in una continua danza creatrice.
Che penserò di questo periodo della mia vita tra vent’anni? Girandomi indietro, rimarrò forse di sale come la moglie di Lot? Riguarderò a questi momenti con indulgenza o con rammarico?
Ad oggi vedo lontano un obiettivo, ma disgraziatamente non so come raggiungerlo, quali i passi da fare, la direzione da prendere, l’indicazione da seguire e mi giro intorno spersa. Mi si presenta alla mente un distante futuro, luminoso e vivo, quasi bastasse solo allungare un po’ la mano per raggiungerlo... eppure tutto quello che intercorre tra qui e quell’altrove sembra fatto di nebbia densa. Un miraggio forse, un‘illusione può darsi, qualcosa che mi posticipa e rafforza l’indecisione presente. Vorrei poter ascoltare dalla me stessa futura parole di saggezza, un caloroso consiglio, un incoraggiamento deciso. Un invito quantomeno, dalla prossima e spero migliore versione di me, a non preoccuparmi, perché ogni cosa è già compresa nella scatola delle infinite possibilità a disposizione per la mia evoluzione. Invece, quel viso mi guarda sorridendo e basta. Come dire: beh, se il viaggio è la meta, allora goditelo e buon divertimento!
All’improvviso rendersi conto che non c’è vuoto intorno a sé, no, in tutta evidenza percepire, con intensa chiarezza, la rete infinita di vita che tutto connette e comprende. Una ragnatela sottile e forte si espande da un punto all’altro di ogni forma esistente e riempie lo spazio che illusoriamente sembra separarle. Con un sospiro di sollievo profondo, scoprire che non si può mai essere soli veramente, mai abbandonati realmente, mai rifiutati effettivamente. Quanta energia in circolo, questa marea in movimento dall’infinito a qui, ora e in ogni momento, non lascia indietro nessuno, che pensi di meritarlo o meno, che soffra o gioisca. Quale sorpresa poter navigare tra le pieghe sconfinate dell’universo, guizzare in un flusso perenne di presenza, percepire l’unità e la differenza, e sapere, profondamente, che entrambe non sono altro che diverse facce della stessa essenza. Scegliere di fondersi in un abbraccio al di là dei propri confini, permettendosi di essere raggiunti dall’altro e anche di scivolare via tra le maglie di una nuova realtà, con convinzione.
L’ho provato, all’improvviso, guardando l’orizzonte di un giorno qualunque, tra i rami degli alberi al tramonto.
Sono qui, seduta su questa panchina ancora bagnata di pioggia, ad affacciarmi sulle nuvole in partenza. Il mio viso si veste del rosa pungente del tramonto, sento la consistenza del colore che mi avvolge e impregna i miei pori.
Io sono quella nuvola in dissolvenza tra le labbra viola del tramonto, io sono quel peso nullo, quel desiderio di andare, senza essere fermata, senza un dove ad aspettarmi. Mi appoggio leggera sulle mani del vento, fiduciosa, libera di non tornare indietro. Mi abbandono ai raggi finali del sole, alla loro obliquità che sprigiona tanta bellezza, alla fragilità e dolcezza degli ultimi momenti di luce che non possono morire, ma solo spostarsi altrove. Io vado, arrivederci, in qualsiasi altra forma ci potremo ritrovare...
Il buio e la luce così inevitabilmente connessi da non poter fare a meno l’uno dell’altro. Una danza fluida che crea e diviene materia e respiro. Sfumature che si intensificano fino alla nitidezza più definitiva. Opposti che si attraggono e nascondono, si rincorrono senza riuscire a fondersi; Solo si espongono l’un l’altro a gradazioni diverse di osservazione. Uno non può inglobare completamente l’altro senza perdersi nei meandri dell’infinità. Ogni eccesso sovrastante diventa violenza alla natura, inconciliabilità. Unione può significare dissolvenza, annullamento; allora, anziché fondersi, scgliere di coesistere sostenendosi vicendevolmente, mutualmente dandosi forza e riflesso, spinta e ricezione, in un movimento divino.
Quando arriverà la gioia? Sotto quale veste si celerà? Avrà forse il colore dell’aria frizzantina delle montagne in primavera? O sentirò un dolce abbraccio risalire dalla tiepida terra bruna dell’ultimo sole di ottobre? Mi apparirà col sapore asprigno di mirtilli di bosco di una generosa estate? Oppure sarà un calore tra le viscere al crepitio del fuoco ristoratore in un buio pomeriggio d’inverno?
Mi avvolgerà come mare cristallino e puro, a riempire ogni spazio libero sul mio corpo? Camminerà al mio fianco silenziosamente in attesa di essere riconosciuta? Forse cadrà su di me come una sorpresa ancora senza volto, un felice inciampo sui sassi del cammino. O forse avrà la voce di un incontro rinnovato e non ancora vissuto appieno.
Chi lo sa ora. Io intanto vado a prepararmi e ascolto, guardo, sento e così vivo...
È fatta, il percorso è ufficialmente iniziato! Quanti dubbi, che ansia...divisa tra il bisogno di fare un discorso razionale e la necessità di affidarmi all’intuito, uno stridente altalenarsi di stati beta e alfa, tra tentativi di controllo e ricerca di fiducia. E poi l’eterno dilemma: sarò all’altezza della situazione? Ho iniziato nella tensione che annebbia la memoria, resistendo a stento alla tentazione di leggere semplicemente ciò che dovevo dire. Poi mi sono detta: ma caspita, sarò ben in grado di esprimermi con parole mie senza scimmiottare qualcuno, insomma un pò di cervello funziona ancora, se poi mi rifaccio alla mia esperienza personale, tutto dovrebbe essere più semplice, anche Qualcuno mi aiuterà...
Alle volte basta poco, così rilassarsi un attimo e permettersi di essere se stessi, di aprirsi, senza cercare la perfezione, senza pretendere il meglio assoluto, solo lasciandosi andare a ciò che si è e a quello che viene.
E alla fine, nonostante gli imprevisti, i tempi mal calcolati, le idee scordate lungo la strada, alla fine devo ammettere che sì, sono stata contenta di averlo fatto. Anzi, no, non è corretto; come poche altre volte prima, mi sono sentita al posto giusto a fare la cosa giusta per me, prima di tutto, una volta tanto. Ho compreso che potevo esprimermi umilmente in un ruolo che rispecchiava le mie attitudini, che poteva corrispondere alle mie capacità, e in più a favore di altri. Amando ciò che stavo facendo. Solo questo.
Ne sono uscita come stordita da tale inaspettato allineamento, sorpresa di ritrovarmi più piena e nutrita di prima da questa esperienza, incoraggiata a sentirmi ancora più disponibile a essere e donare e basta. E mi risuona ancora nell’aura il messaggio ricevuto a suo tempo: “ se non ti apri, come fa la vita ad amarti?”
In questo periodo così caotico, senza certezze consolatorie, né punti di riferimento a indicarci la strada, ci ritroviamo sorpresi a scoprirci così fragili di fronte all’indecifrabilità della situazione. Siamo stupiti di ritrovarci vulnerabili, a dispetto del grado di civiltà che pensiamo di aver raggiunto. Sembra sfumare l’illusione della sicurezza garantita di un futuro, dell’autoreferenzialità confortevole in cui ci siamo bellamente adagiati per lungo tempo. Finito l’inganno del controllo sulla realtà, che pensavamo ci proteggesse dall’affrontare le eventuali sofferenze di una incarnazione umana, possiamo chiederci: che rimane di noi? Chi siamo alla fin fine? Cosa siamo, inseriti nel contesto più ampio dell’esistenza?
Un delirio di onnipotenza ci ha fatto dimenticare che la forza vitale non può essere contenuta, né indirizzata a piacimento. È un gioco a cui partecipiamo senza aver compreso a pieno le regole o forse ci siamo solo scordati quelle originarie, sostituendole con altre di comodo.
Dobbiamo ammettere che se non riusciamo a connetterci con quel mistero profondo che è la vita non possiamo andare oltre l’istinto di mera sopravvivenza che ci imprigiona in condizioni di paura. Se non ci identifichiamo finalmente con il principio unico di essere feconda, molteplice e diversa Umanità, continueremo a sentirci vittime indifese di un disegno sconosciuto.
Solo ammettendo di essere la frazione di un Tutto potremo fare la nostra parte con serenità e riconoscenza per ciò che accade. Affidarsi alla vita, sempre nella facoltà del nostro arbitrio, richiede molto coraggio, ma ricordiamoci che se siamo qui ora è perché abbiamo scelto di attraversare questa esperienza. Accettare questo ci potrà rendere finalmente liberi dalla paura della malattia e della morte, che sono comunque componenti loro stesse del ciclo vitale in cui siamo immersi. Cerchiamo di non smettere di vivere prima di credere di essere morti. Anche perché l’anima non muore mai.
Siamo sospesi in un tempo cui non sappiamo dare un nome preciso, immersi nel disorientamento del nostro fare senza scopo. Giriamo intorno a noi stessi storditi di parole e dubbi e non riusciamo a vedere al di là dei nostri piedi. L’unica certezza è l’indeterminatezza degli eventi, mentre stiamo in un luogo deserto di carezze ma affollato di contatti virtuali, alla disperata ricerca di qualche rassicurazione che ci faccia illudere che nulla sia veramente cambiato.
Eppure l’aria è più limpida, la nuova stagione arriva senza preoccupazioni nel suo fiorire e ci fa sentire così estranei alla fluidità della natura. Ci ritroviamo rinchiusi tra le quattro mura delle nostre paure profonde, a fare i conti con i limiti personali di un passaggio storico che ci aliena dalle abitudini acquisite. Siamo spersi di definizioni assolute, assetati di ancoraggi logici che ci sorreggano mentre dondoliamo con l’altalena delle incertezze sul burrone buio dell’avvenire.
Però niente e nessuno ci salverà dal caos, dal sovvertimento dei nostri fragili comodi, perché la salvezza può venire solo da dentro, dalle profondità in cui si nasconde troppo spesso la nostra parte più pura. Siamo animali che si riconoscono nelle proprie menti perennemente parlanti, che usano il corpo come strumento più o meno accordato all’istinto e si sono dimenticati dove sta di casa l’anima. Non l’abbiamo solo venduta o frammentata, ce ne siamo proprio scordati, come se non facesse parte del pacchetto esistenziale di questa incarnazione, come se fosse un optional che ogni tanto si fa sentire, quando la spia del serbatoio della coscienza segna il rosso. Che tristezza, che peso nei nostri polmoni che vorrebbero respirare liberamente vita vera, autentica presenza dell’essere. Che fatica questo cuore, che sta pompando disperatamente per farci risalire dalle viscere contratte dei timori ancestrali e ridiscendere dalle nuvole scure dei nostri pensieri cupi. Stiamo centrati qui, nel cuore, tranquilli e leggeri, dove il fare si può trasformare in essere, senza un prima e un dopo. Solo in un intenso e totale adesso.
Il panico della pandemia è figlio delle nostre memorie karmiche, bisnipote dei terrori ancestrali dei nostri avi. Portiamo scritte nei nostri geni le ansie di sopravvivenza di chi ci ha preceduto e al contempo risuonano nelle vibrazioni del tessuto Akashico le paure vissute in altre vite. Le esperienze passate ci fanno da monito e da condanna insieme; sono campanelli d’allarme, certo, ma bisogna saperli interpretare secondo il nostro livello di consapevolezza. E dovrebbero farci riflettere che, se possiamo parlarne ora, allora c’è qualcosa di immortale che trascende il tempo e lo spazio e ci permette di rammentarci di tutto ciò. Quindi, cosa c’è da temere alla fine? Il rischio di vivere include anche l’evento morte, altrimenti perché possiamo dire di essere nati? Se una parte di noi è senza tempo, come mai ci lasciamo ancora condizionare dall’aspettativa mentale o da programmazioni antiche? Diventare consapevoli di questi meccanismi è il primo passo per andare oltre, rilasciando le energie tossiche, sciogliendo i nodi e pacificando le immagini dolorose per scegliere di vivere in pienezza il presente.
L’angoscia per la sofferenza e l’indeterminatezza del futuro toglie gioia alla vita, diventa soffocante perdita di entusiasmo, riduce l’esistenza a mera sussistenza, impoverisce gli animi, brucia le possibilità. Siamo qui per essere la migliore versione di noi stessi, per fiorire come parte della natura, qualunque cosa accada. Questo ci chiede la nostra anima, questo dovremmo ricordare. Sempre.
Stanotte mi sono affacciata al balcone per respirare una boccata d’aria fresca.
Mi sono ritrovata avvolta da un silenzio stordente che mi riempiva le orecchie, come il trillare di una sirena muta. Era un urlo vuoto che non sapeva però di mancanza, anzi saturava densamente di stupore, impensabile in altri momenti. Tutto era immobile, si percepiva come un immenso respiro alzarsi e abbassarsi nel freddo della notte. Ogni eco lontana si espandeva senza limiti, oltre l’orizzonte visivo. In quel deserto di rumori percepivo le infinite connessioni tra gli esseri senzienti, persino con gli astri lontani. Assolutamente nessun senso di solitudine, né di abbandono erano presenti; c’era invece un alone di perfezione manifesta, di quiete sovrana e magica, una specie di benedizione invisibile che aleggiava su ogni cosa.
Era pura bellezza. Ho pensato: perché ci voleva così tanto dolore e spavento per arrivare a questo?
In questi giorni così alienanti posso dire di aver riscoperto la relazione con piccole cose, scontate prima, adesso quasi miraggi.
Ho avuto una fugace occasione di calpestare la terra incolta, ne ho sentito il sostegno stabile, la condivisione di una stessa materialità e in un attimo il mio animo si è sentito ricco di forza.
Ho accarezzato con dolcezza un breve manto di erba novella e mi sono commossa al percepire di così fresca vitalità. Ho capito che la sofferenza di questi momenti è tutta umana.
Mi sono nutrita dei raggi solari in un metro quadro di balcone di un’ora d’aria, e me ne sono sentita così vivificata, baciata, come tutta la natura, da un’infinita energia.
Ho ascoltato il canto trillante di uccellini al mattino sui radi alberi nelle vicinanze, in un silenzio denso di attenzione, lasciandomi avvolgere da quella gioia di vivere e immaginando la libertà delle loro ali.
Ho accolto emozionata il volo di una coccinella sulla mia mano, in un moto di pura meraviglia per una visita così inaspettata e con un desiderio recondito di trattenerla un poco con me per condividere la sua grazia leggera.
Ho rivisto cari visi e condiviso momenti da lontano, ma con un cuore pieno di attesa e di voglia di celebrare in ogni caso, nella certezza che non ci sono occasioni perdute ma solo rimandate.
Tutte emozioni amplificate dal contagocce del caso, eccezioni di quotidiana realtà naturale in tempi fuori dell’ordinario.
E mi viene da dire ora più che mai: grazie.
Siamo in una curva, in salita. Non si può vedere cosa c’è al di là dello sguardo. L’ignoto ci fa paura, non conosciamo la strada che stiamo percorrendo. Possiamo solo fare un passo dopo l’altro stando bene in equilibrio stabili nel nostro baricentro, adattandoci al terreno con i piedi, facendo attenzione al paesaggio che attraversiamo per cogliere ogni segnale ci possa raggiungere. Siamo in viaggio verso un domani che ci è straniero ma non estraneo, metro dopo metro utilizzando le nostre forze e i nostri sensi. È difficile immaginare cosa ci aspetta, ma mentre affrontiamo la strada e conformiamo i nostri corpi alla situazione, possiamo distogliere l’attenzione dai nostri pensieri dubbiosi e ossessivi e invece possiamo ascoltare il nostro sentire interiore, coltivare la nostra intuizione, esercitare la nostra creatività, far fiorire il nostro valore umano, contattare sentimenti veri, chiarirci le idee e le scelte. Possiamo fare tantissimo per noi stessi e gli altri nostri compagni di carovana, liberando vecchie energie e aprendoci a nuove volontà. Stando fermi in una stanza, senza bisogno di nulla di particolare, mentre lentamente seguiamo il sentiero dei giorni.
È venuto il momento di chiedercelo: cosa vogliamo essere? Come desideriamo sia la nostra vita? Poniamoci la domanda sinceramente, andando al di sotto delle onde superficiali dell’oceano della mente. Scendiamo nel regno delle acque blu scure del nostro sentire profondo, dove non ci sono suoni, la luce è un velo lontano. Dove ci siamo noi e nient’altro. Niente rumore del mondo e della sua fiera delle vanità, niente cicaleccio mentale di parole acquisite passivamente. In un posto così nascosto agli occhi da doverli chiudere per ritrovare le coordinate del nostro spazio interiore. Esattamente lì, nel centro infinito dell’essere che siamo, cosa scegliamo di manifestare di noi? Perché questo è il punto: noi manifestiamo ciò che siamo. E siamo tutti quanti espressioni diverse della stessa Sorgente. Con la stessa origine divina, con lo stesso obiettivo di vivere l’incarnazione per fare esperienza di noi stessi in questa frequenza. Solo ci scordiamo di contattare questa parte essenziale di noi, per superficialità, per ignoranza, per pigrizia, per paura del giudizio o per scelta precisa di applicare il nostro libero arbitrio...Ma adesso ci è stato dato un tempo per fermarci e riflettere e cercarci e trovarci. Quindi, senza più scuse, neppure la paura di morire, poniamoci la domanda e abbiamo il coraggio di guardare in faccia alla risposta. Che magari non ci piacerà, che ci sorprenderà o scuoterà di brutto. Che potremo accettare o negare, ma che non si potrà cancellare nella sua verità. Adesso è ora.
Mi ha sorpreso la spontanea velocità con cui le strade si sono riempite, appena sorpassato lo stallo delle imposizioni.
Movimento, brusio, traffico, si stanno riprendendo spazio acustico e visivo, una versione molto simile a prima dell’emergenza. Si sente dire che c’è bisogno di tornare alla normalità... ma siamo sicuri che la cosiddetta normalità precedente fosse la cosa migliore per noi? O forse solo un modello conosciuto e quindi confortevole anche se tossico? Non riusciamo proprio a immaginarci qualcosa di diverso a cui aspirare? Soprattutto non riusciamo a trovare delle risorse interiori per guardare in faccia alla paura di una possibile transizione verso qualcosa di ancora ignoto?
Come tutti, non mi piace sentirmi rinchiusa in contenimenti più o meno ampi, mi viene da ringhiare all’idea di libertà limitate, non sopporto il qualunquismo e l’irresponsabilità. Come tutti, mi trovo di fronte al macro punto interrogativo del domani e dopo. Come tutti, preferirei che la mia salute non dovesse dipendere da decisioni che sfuggono al mio controllo.
Ma mi manca quella quiete esterna che si accompagnava alla ricerca di quella interiore, quell’attenzione ai particolari che solo la lentezza permette, la sensazione di rifugio sicuro tra le mie cose, l’ascolto della leggerezza senza aspettativa, lo sguardo concentrato sul momento...
Mi auguro che tutto ciò che è maturato in questo tempo sospeso non vada disperdendosi tra i rivoli di un ritmo convulso e superficiale, che una lezione almeno sia rimasta, positivamente, e che l’insegnamento sia stato recepito veramente e nulla di questa esperienza vada sprecato. Che non rimanga una occasione perduta per scegliere di essere migliori.
Ho tolto la mascherina nel parco dopo aver inalato la mia anidride carbonica per qualche ora, col fiato corto in una presunta carenza di ossigeno e finalmente ho respirato! Così incredibilmente fresca e dolce di profumi mi pareva l’aria, così libera e leggera. Così inaspettatamente nuova, come dopo un’apnea involontaria e capricciosa, una brezza buona di raggi solari, di particelle fluttuanti! Che gioia per i polmoni aprirsi ad accogliere il flusso del respiro, che gratitudine per una cosa così ovvia!
Inspiro.
Espiro.
Sono il mio respiro.
Vita.